morte

Memorie di una Pandemia #2

Memorie di una Pandemia #2

Covid-19
ossia
Come Ostentare Vite Interessanti Daddentro 

Vi ho già detto che siamo murati in casa?
Sono quasi certamente convinta di avervi accennato che i miei piani per il 2020, tutti i miei piani per questi infausto e bastardo anno siano andati a farsi – letteralmente – fottere a causa di una pandemia mondiale. Pandemia che ovviamente nessuno credeva sarebbe scoppiata, perché ovviamente si trattava poco più di una mera influenza. Influenza che, vorrei aggiungere a beneficio dei meno attenti, non avrebbe costituito un problema per nessuno perché in fondo spediva in una cassa di sigari (NdR: ti cremano se salti il fosso per via del Covid-19) unicamente vecchi e malati.

Ci siamo visti riempire la testa – e i coglioni – per settimane con questa storia.

È morto/a dopo essere stato infettato/a dal virus Covid-19 ma aveva X anni [inserire numero a scelta, purché >60 anni] e aveva malattie pregresse.

Oh. Bene. Questo sì che mi rasserena enormemente! Ma tanto, tanto, tanto! È morto ma tanto era vecchio e malato e quindi stigrancazzi!

*givemefive che pagamo meno pensioni Bro!*

In poche parole dopo il primo caso apparso in Italia è iniziato uno spiacevole e bimbominkiesco gioco nel quale si dava la caccia al Paziente 0, ci si accusava l’un con l’altro di essere razzisti perché qualcuno proponeva di mettere TUTTI i viaggiatori in quarantena, si contavano le patologie pregresse dei morti di Codogno.

E dove cazzarola sarebbe Codogno? Chi la conosce Codogno? Codogno è in Italia. Ahhh… quella Codogno! No, non è vero, non la conosco. (altro…)

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[Original]Sei venuta da me – Debora M.

Sei venuta da me (Debora M.)
 
 
Mi sono svegliata nel tepore del tuo abbraccio,
fremo al tuo respiro lieve sulla mia nuca.
Mi sei venuta a cercare,
nel silenzio di questa notte fredda,
e dolcemente mi culli.
E non piangere, mi dici, in un sussurro.
Mi occuperò io di te, adesso, figlia.
Tremo.
Chiudo gli occhi e percepisco il tocco vellutato e fresco.
Sei fresca, Morte, sei diversa, sei calda.
Ma sei morte e piango,
mentre le tue braccia mi stringono con la tenerezza di un’amante.
Oh, Morte.
Mi sei venuta a cercare tu,
ma non piango, non piangerò.
Ma cosa vuoi da me, Morte?
Perché mi lusinghi prima della fine?
Perché asciughi le mie lacrime, consolando la mia anima?
Eppure, mi sei venuta a cercare tu,
ma la tua stretta è calda, la tua voce è miele
e il tuo tocco mi sfiora, piano.
Mi consoli, Morte, e non comprendo.
Ti fisso e mi perdo nel tuo sguardo,
mentre dolce e amara mi fissi.
Ora non tremo più.
Oh, Morte.
Mi sei venuta a cercare tu,
con la cura di una madre.
Non dubitare, mi dici, stringendomi.
Mi prenderò cura di te, figlia,
non temere, ora sei con me, riposa.
Non crederei ad una parola di te,
eppure lo faccio.
Riposo.
 
23/02/2010
Raccolta  –  “Un’anima perduta”
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[Original] Presagi di Dolore

Presagi di Dolore
Debora M aka Nasreen

Alzarsi la mattina e ritrovarsi a fissare lo specchio con aria smarrita. Cosa c’è che non va? Incomprensibile.
Osservare accigliata le coltri appena abbandonate, e accorgersi che no, stranamente, la voglia di tornare a raggomitolarcisi non c’è.
Cosa c’è che non va?
Prendersela con le poche ore di sonno, scrollare le spalle e decidere di farsi un caffè. Amaro, ovviamente. Tutto pur di schiacciare quel peso che ti opprime e blocca il fiato.
Qualunque cosa pur di poter tornare a respirare e allontanare il panico che ti ha catturata sin dal turbolento risveglio.
Muoversi, seppur meccanicamente, sembra essere l’unico mezzo pur di rallentare l’ondata di panico che senti strisciare, catturarti le gambe e salire
lentamente ma inesorabilmente verso la bocca dello stomaco. Inutile, tutto invano.
Un biscotto in bocca, il letto da rifare, gli abiti da coordinare e le scarpe da trovare, nel marasma di una stanza che appare fin troppo ordinata, se paragonata al caos della tua anima. Scivoli davanti allo specchio ignorandolo testardamente, occhi a terra e trucchi stretti in mano, forse puoi tentare di stendere la maschera per il mondo senza doverti osservare troppo attentamente. Forse puoi farcela.
Alzi gli occhi, e guardi oltre… ignori le pupille dilatate, la fronte aggrottata, le labbra morse a sangue e inizi a camuffare il tuo stato d’animo con strati e strati di trucco. Lo scopo è quello di renderti uguale a tutti gli altri, di non farti notare, ma fallisci miseramente: i tuoi occhi, ora truccati, risultano ancor più sgranati e liquidi.
Il senso di malore cresce, ancora. Ti spaventi e fissi l’orologio che segna le otto. Troppo presto.
Il desiderio di passare le mani freneticamente su quella lavagna sporca che è il tuo viso, per cancellare tutto, è forte. Una bambina capricciosa a cui non piace il proprio disegno, o forse una bambina insicura che non sa se il disegno piacerà agli altri.
Non lo sai, ma l’irritazione e il desiderio di passarti le unghie addosso, fino a scavare profondi solchi
rossi sulle tue guance pallide, ti spaventa.
Indietreggi e ti stacchi dallo specchio. Il mondo per un giorno può anche andarsene a quel paese, ti dici fintamente convinta.
Afferri la borsa e ti cerchi le chiavi, è presto ma non t’importa: devi uscire. E non perché si è fatto tardi.
La stanza intorno a te si muove più velocemente di te, non riesci a stare al passo con la realtà e senti il respiro farsi affannoso. La tua mano è lenta mentre cerchi afferrare il cellulare che si fa sempre più lontano, e il mondo più veloce vortica spingendoti ad aggrapparti al qualcosa che trovi alla tua sinistra. Ti aggrappi, chiudi gli occhi e delle immagini sfrecciano davanti alle palpebre chiuse.
Un ricordo? Un sogno dimenticato? Cosa?
La stanza rallenta ma il tuo cuore corre e sbatte violentemente contro il petto, lo senti premere contro lo sterno. Lo stomaco si serra violentemente. Fa male ma riesci ad afferrare il cellulare e lo stringi in un pugno mentre ti appoggi a un mobile chiedendoti quando finirà.
Squilla il telefono che hai in mano. Lo fissi, ti accigli e qualcosa scatta mentre premi il tasto verde e lo porti all’orecchio.
“Pronto?”, sussurri con voce rauca.
“Pronto? Ciao, sono io… Io, beh… ho bisogno del tuo aiuto…”
Chiudi gli occhi, ti accasci a terra e gemi.
Tremi, mentre ascolti la spiegazione di quel presagio che non eri stata in grado di cogliere e purtroppo le immagini del sogno dimenticato si riaffacciano nella tua mente.
Senti il rombo del tuo cuore che sbatte contro la cassa toracica, il suono del battito che risale verso l’alto e si riversa nelle tue orecchie, rendendoti sorda a tutto il resto. Il respiro si placa, fino a diventare flebile e impercettibile, mentre stringi i denti, per soffocare un grido che sembra voler uscire ma che invece si dibatte nella tua mente, attonita.
Cerchi di assimilare le parole, d’unirle tentando di formare frasi, e concetti. Continui ad ascoltare la voce che ti parla dall’apparecchio, di un incidente, un evento… o forse una disgrazia. Parole che rendono vere o tristemente chiare le forme e figure che hanno sfrecciato dietro i tuoi occhi
chiusi pochi minuti prima. Che danno un valore al presagio, che ti risucchiano l’anima.
“Mi senti? Sei ancora in linea?”
La voce è lontana, ma la senti e lentamente apri la bocca per rispondere, conscia che non avrai abbastanza fiato per far uscire le tue parole. Ti schiarisci la gola, ingoiando le lacrime e riprovi.
“Ti sento, va bene. Ho capito, ci penso io.”
“Ti senti ben…”
Clic. Attacchi. Non ti serve ascoltare altro, ti dici, mentre ti alzi a fatica da terra e i pensieri vorticano nella tua mente.
Ignori lo squillo del cellulare, lo lasci a terra, incurante, e ti dirigi nuovamente verso la camera da letto: la gonna fantasia che indossi non è più adatta al luogo in cui ti stai recando.
È il nero il colore che ti veste, adesso. Grigio e nero, come il vortice di disperazione che sembra divorarti dall’interno. Nero come il presagio che ti aveva investita quella stessa mattina, di cui adesso conosci ogni singola sfumatura.
Il panico sembra pronto ad assalirti di nuovo, ma questa volta lo tieni a bada. Non permetterai alle emozioni di straripare nuovamente, non permetterai loro di bloccarti e imprigionarti. Non usciranno, ti ripeti, fissandoti allo specchio senza in realtà vederti. Afferri convinta un rossetto rosso fuoco, e copri convinta il lucidalabbra neutro che ti eri passata poco prima. T’infiammi le labbra, e lo passi nuovamente, ancora e ancora,
fino a quando il rosso sembra essere l’unica cosa a spiccare sul tuo viso pallido e sconvolto. Ti fissi un’altra volta, fai un sorriso amaro, e dai un
altro colpo di rosso, giusto per essere convinta che la tua nuova maschera regga.
Sei pronta, decidi improvvisamente. Vestita di nero, con gli occhi nascosti dalle labbra color cremisi e il vuoto emotivo di chi è convinto di poter affrontare tutto senza lasciarsi frantumare.
Sei pronta, ti ripeti, come un mantra, mentre afferri la borsa e ti avvii vero la porta, lanciando uno sguardo distratto al cellulare che continua a suonare
come impazzito dal pavimento. Il rumore della suoneria si smorza grazie alla porta blindata che si chiude, per poi scomparire una volta salita in ascensore.
 
C’è stato un incidente, questa notte. Mi hanno appena chiamata, ma io non posso andare là, non riesco ad andarci. Non posso, capisci? Ti prego, vai, ti supplico. Vai tu. Io non posso, non voglio vederlo così, per l’ultima volta. Ti supplico…
Esci in strada e inizi a camminare, sai che sarà una lunga camminata prima di arrivare alla tua meta, e sai anche che i tacchi entro poco inizieranno a farti male, ma non t’importa. Rallenti il passo, respiri, e ignori la fermata dell’autobus. Andrai a piedi, ti riproponi, testarda, mentre, ignorando il resto del mondo, lasci che le parole udite poco prima ti riempiano e colmino. Parole che ti parlano di una fine, di una morte senza senso e che t’implorano.
Parole che non puoi neanche tentare di ignorare, perché inconsciamente già te le aspettavi, fin dal primo momento in cui, quella
disgraziata mattina, avevi aperto gli occhi colmi delle immagini dimenticate di un sogno premonitore che aveva tentato di avvertirti.
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Goodbye.

La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
– Henry Scott Holland 

Un sorriso triste di stende sul viso di chi resta,
un’intima carezza di quella lacrima che scivola, amara.
Un abbraccio silente, di quel Nessuno che ti culla,
mentre l’urlo che ti scuote l’anima si attenua, attonito.
Sconfitto.
Non c’è verbo che può frenare, non c’è mano a cui aggrapparsi.
Nessuna consolazione, mai più. Non più.
Troppo tardi per offrire un abbraccio, troppo tardi per una parola,
un urlo, uno schiaffo… una carezza. Troppo tardi.
E l’abbraccio si apre, l’urlo preme per librarsi
e le membra tremano sotto il peso del fallimento.
Avrei, avremmo… Avresti. Tu.
Ed è rabbia, fuoco, dolore e lacrime.
Rabbia per quel sorriso ormai perso.
Fuoco per un addio fin troppo acerbo.
Dolore per una perdita insanabile.
Lacrime per te, ormai lontano,
per noi che restiamo annegando in quei “se” di chi non accetta.
Di chi non si perdona e non perdona.
Ormai lontano, in un volo eterno che trascende rancori, domande e preghiere,
non c’è nulla che trattiene.
E tutto ciò che resta è quell’abbraccio silente,
di quel Nessuno che è stato tutto,
ma che naviga ormai in mari che non potremo solcare.

– Debora M.

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