racconto

[Original] Presagi di Dolore

Presagi di Dolore
Debora M aka Nasreen

Alzarsi la mattina e ritrovarsi a fissare lo specchio con aria smarrita. Cosa c’è che non va? Incomprensibile.
Osservare accigliata le coltri appena abbandonate, e accorgersi che no, stranamente, la voglia di tornare a raggomitolarcisi non c’è.
Cosa c’è che non va?
Prendersela con le poche ore di sonno, scrollare le spalle e decidere di farsi un caffè. Amaro, ovviamente. Tutto pur di schiacciare quel peso che ti opprime e blocca il fiato.
Qualunque cosa pur di poter tornare a respirare e allontanare il panico che ti ha catturata sin dal turbolento risveglio.
Muoversi, seppur meccanicamente, sembra essere l’unico mezzo pur di rallentare l’ondata di panico che senti strisciare, catturarti le gambe e salire
lentamente ma inesorabilmente verso la bocca dello stomaco. Inutile, tutto invano.
Un biscotto in bocca, il letto da rifare, gli abiti da coordinare e le scarpe da trovare, nel marasma di una stanza che appare fin troppo ordinata, se paragonata al caos della tua anima. Scivoli davanti allo specchio ignorandolo testardamente, occhi a terra e trucchi stretti in mano, forse puoi tentare di stendere la maschera per il mondo senza doverti osservare troppo attentamente. Forse puoi farcela.
Alzi gli occhi, e guardi oltre… ignori le pupille dilatate, la fronte aggrottata, le labbra morse a sangue e inizi a camuffare il tuo stato d’animo con strati e strati di trucco. Lo scopo è quello di renderti uguale a tutti gli altri, di non farti notare, ma fallisci miseramente: i tuoi occhi, ora truccati, risultano ancor più sgranati e liquidi.
Il senso di malore cresce, ancora. Ti spaventi e fissi l’orologio che segna le otto. Troppo presto.
Il desiderio di passare le mani freneticamente su quella lavagna sporca che è il tuo viso, per cancellare tutto, è forte. Una bambina capricciosa a cui non piace il proprio disegno, o forse una bambina insicura che non sa se il disegno piacerà agli altri.
Non lo sai, ma l’irritazione e il desiderio di passarti le unghie addosso, fino a scavare profondi solchi
rossi sulle tue guance pallide, ti spaventa.
Indietreggi e ti stacchi dallo specchio. Il mondo per un giorno può anche andarsene a quel paese, ti dici fintamente convinta.
Afferri la borsa e ti cerchi le chiavi, è presto ma non t’importa: devi uscire. E non perché si è fatto tardi.
La stanza intorno a te si muove più velocemente di te, non riesci a stare al passo con la realtà e senti il respiro farsi affannoso. La tua mano è lenta mentre cerchi afferrare il cellulare che si fa sempre più lontano, e il mondo più veloce vortica spingendoti ad aggrapparti al qualcosa che trovi alla tua sinistra. Ti aggrappi, chiudi gli occhi e delle immagini sfrecciano davanti alle palpebre chiuse.
Un ricordo? Un sogno dimenticato? Cosa?
La stanza rallenta ma il tuo cuore corre e sbatte violentemente contro il petto, lo senti premere contro lo sterno. Lo stomaco si serra violentemente. Fa male ma riesci ad afferrare il cellulare e lo stringi in un pugno mentre ti appoggi a un mobile chiedendoti quando finirà.
Squilla il telefono che hai in mano. Lo fissi, ti accigli e qualcosa scatta mentre premi il tasto verde e lo porti all’orecchio.
“Pronto?”, sussurri con voce rauca.
“Pronto? Ciao, sono io… Io, beh… ho bisogno del tuo aiuto…”
Chiudi gli occhi, ti accasci a terra e gemi.
Tremi, mentre ascolti la spiegazione di quel presagio che non eri stata in grado di cogliere e purtroppo le immagini del sogno dimenticato si riaffacciano nella tua mente.
Senti il rombo del tuo cuore che sbatte contro la cassa toracica, il suono del battito che risale verso l’alto e si riversa nelle tue orecchie, rendendoti sorda a tutto il resto. Il respiro si placa, fino a diventare flebile e impercettibile, mentre stringi i denti, per soffocare un grido che sembra voler uscire ma che invece si dibatte nella tua mente, attonita.
Cerchi di assimilare le parole, d’unirle tentando di formare frasi, e concetti. Continui ad ascoltare la voce che ti parla dall’apparecchio, di un incidente, un evento… o forse una disgrazia. Parole che rendono vere o tristemente chiare le forme e figure che hanno sfrecciato dietro i tuoi occhi
chiusi pochi minuti prima. Che danno un valore al presagio, che ti risucchiano l’anima.
“Mi senti? Sei ancora in linea?”
La voce è lontana, ma la senti e lentamente apri la bocca per rispondere, conscia che non avrai abbastanza fiato per far uscire le tue parole. Ti schiarisci la gola, ingoiando le lacrime e riprovi.
“Ti sento, va bene. Ho capito, ci penso io.”
“Ti senti ben…”
Clic. Attacchi. Non ti serve ascoltare altro, ti dici, mentre ti alzi a fatica da terra e i pensieri vorticano nella tua mente.
Ignori lo squillo del cellulare, lo lasci a terra, incurante, e ti dirigi nuovamente verso la camera da letto: la gonna fantasia che indossi non è più adatta al luogo in cui ti stai recando.
È il nero il colore che ti veste, adesso. Grigio e nero, come il vortice di disperazione che sembra divorarti dall’interno. Nero come il presagio che ti aveva investita quella stessa mattina, di cui adesso conosci ogni singola sfumatura.
Il panico sembra pronto ad assalirti di nuovo, ma questa volta lo tieni a bada. Non permetterai alle emozioni di straripare nuovamente, non permetterai loro di bloccarti e imprigionarti. Non usciranno, ti ripeti, fissandoti allo specchio senza in realtà vederti. Afferri convinta un rossetto rosso fuoco, e copri convinta il lucidalabbra neutro che ti eri passata poco prima. T’infiammi le labbra, e lo passi nuovamente, ancora e ancora,
fino a quando il rosso sembra essere l’unica cosa a spiccare sul tuo viso pallido e sconvolto. Ti fissi un’altra volta, fai un sorriso amaro, e dai un
altro colpo di rosso, giusto per essere convinta che la tua nuova maschera regga.
Sei pronta, decidi improvvisamente. Vestita di nero, con gli occhi nascosti dalle labbra color cremisi e il vuoto emotivo di chi è convinto di poter affrontare tutto senza lasciarsi frantumare.
Sei pronta, ti ripeti, come un mantra, mentre afferri la borsa e ti avvii vero la porta, lanciando uno sguardo distratto al cellulare che continua a suonare
come impazzito dal pavimento. Il rumore della suoneria si smorza grazie alla porta blindata che si chiude, per poi scomparire una volta salita in ascensore.
 
C’è stato un incidente, questa notte. Mi hanno appena chiamata, ma io non posso andare là, non riesco ad andarci. Non posso, capisci? Ti prego, vai, ti supplico. Vai tu. Io non posso, non voglio vederlo così, per l’ultima volta. Ti supplico…
Esci in strada e inizi a camminare, sai che sarà una lunga camminata prima di arrivare alla tua meta, e sai anche che i tacchi entro poco inizieranno a farti male, ma non t’importa. Rallenti il passo, respiri, e ignori la fermata dell’autobus. Andrai a piedi, ti riproponi, testarda, mentre, ignorando il resto del mondo, lasci che le parole udite poco prima ti riempiano e colmino. Parole che ti parlano di una fine, di una morte senza senso e che t’implorano.
Parole che non puoi neanche tentare di ignorare, perché inconsciamente già te le aspettavi, fin dal primo momento in cui, quella
disgraziata mattina, avevi aperto gli occhi colmi delle immagini dimenticate di un sogno premonitore che aveva tentato di avvertirti.
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[Orginal] Scatole

Scatole

Salvate, salvate la ragazza dagli occhi di tenebra.
Salvatela, sembravano implorare i mormorii di chi aveva tentato e fallito nel tempo.
Corretele incontro, sguainando la luce in grado di diradare le tenebre, salvatela dalle tenebre. Salvatela da se stessa.
Salvate, salvate la ragazza dagli occhi di tenebra e la morte nel cuore.

Bruciava sapere della pietà della gente, bruciava ancor più quando si scorgeva paura, forse rabbia, e si svestiva la pietà dei suoi ingannevoli abiti d’ipocrisia. Una pietà che, spoglia, si rivelava essere l’invidia di chi teme e agogna ciò che non ha e non avrà mai il coraggio di tentare di afferrare.

E allora perché non salvare la ragazza dagli occhi di tenebra?

Salvarla, uniformarla e spingerla nuovamente nella scatola di mediocrità dalla quale era fuggita.
Perché no, non si lasciano cani sciolti, non si può lasciare in libertà. Essa è sbagliata, è brutta e ingannevole.
Dentro la scatola, torna dentro la scatola ragazza dagli occhi di tenebra!

Eppure bruciava anche allora, quando dentro la scatola ancora vi era relegata, ricorda la ragazza.
Vincolata da una pianificazione antica, da regole impiantate nel suo Io anni e anni addietro che rendevano la scatola un’illusoria comoda realtà.
Protezione, rigore e rispetto. Attenzione, ordine e trasparenza. Luce e pulizia. Buono e legittimo.

E la scatola ti stringeva,
lacerava l’anima e avviluppava la carne, lacerandola. Il sangue macchiava vesti, si accumulava nel fondo, impregnando l’aria e tingendo di rosso gli occhi.
E la ragazza dagli occhi di tenebra ricorda ancora quando il mondo era tinto di rosso, il colore del sangue che le sgorgava dalle vene.
E la lingua, timida, saggiava l’aria gustandone il sapore metallico e aspro. Era la vita nella scatola, e la ragazza aveva ancora gli occhi rossi di sangue, prima che le tenebre li inghiottissero.

Le scatole erano tante, belle, e allineate una accanto all’altra in un candido filare di pregevole ordine.
Erano magnifiche, perfette e giuste. E comode per tutti, grassi e magri. Alti e bassi avevano stesse scatole, pari opportunità, identici spazi.
Ed era dello stesso rosso il sangue che sgorgava dalle loro ferite, ma esso restava nelle scatole, imbevendo abiti, ossa e menti.
Il rosso era il colore giusto, il colore della vita nella scatola e del mondo normale.
La ragazza sapeva cosa era normale, sapeva che tutto ciò che era rosso era giusto, come era giusto il dolore che provava, anche se non veniva chiamato “dolore”, ma crescita.

E con la crescita, la scatola diventava sempre più piccola e angusta. Il sangue continuava a sgorgare e tutto sembrava sempre più difficile da considerare giusto.
I suoi occhi erano ancora rossi, rossi come il sangue e rossi come gli occhi di tutte le scatole del mondo. E così era, così doveva essere.
Saperlo, però, non rendeva più semplice sorridere di ogni nuova ferita, di ogni osso spezzato, di ogni fitta alle membra, ormai intorpidite dal lungo risiedere nella scatola.
Instupidita la mente, infiacchite le membra, e la voce… Avevano mai avuto voce le altre scatole del mondo? Aveva mai udito anche un solo sussurro sperso nel vento? No,
nessuno aveva voce, questo era chiaro alla ragazza nella scatola.
Nessuno aveva voce o nessuno aveva qualcosa da dire, troppo impegnati a crescere, poi vivere ed infine morire, in compagnia della scatola
assassina che si nutriva di loro e di ogni loro sospiro.

La ragazza dagli occhi rossi temeva di essere l’unica ad avere voce, a volerla librare nell’aria, a voler urlare per ogni stilla di sangue che la scatola le sottraeva, per ogni goccia di vita a cui rinunciava. Per ogni “giusto”, “normale” e “corretto” a cui si arrendeva continuando ad abitare nella scatola. E il timore la imprigionava più della scatola stessa.

Ma quello che la ragazza non sapeva era che nelle scatole c’è spazio per un solo corpo, non c’è spazio per più pensieri di quelli che ci sono sempre stati. Non è possibile aggiungere o
togliere nulla, nella scatola, dove gli occhi si abituano presto a vedere il mondo color cremisi e le ossa si rompono, saldano e spostano sempre in virtù della cella e dei suoi limiti.
Dove non c’è voce, dove l’aria è impregnata di sangue e tutto è giusto, corretto e perfetto così com’è stato inscatolato. La ragazza non aveva idea di quanto fosse fragile l’equilibrio di quel mondo fatto
di scatole bianche, perfettamente allineate e immolate all’altare di una spietata uguaglianza figlia dell’illimitata ipocrisia.

Tutto questo, la ragazza dagli occhi di tenebra, non lo sapeva quando pensò per la prima volta di essere diversa, di essere l’unica ad avere voce.
E dal concetto di unicità nacque un pensiero nuovo, diverso, che spinse e si dimenò per trovare il suo spazio nella scatola. Spazio che non c’era, ma che, inconsapevole ed egoista, ormai esisteva
e pretendeva il suo vuoto. Premeva e spingeva la ragazza contro le mura della scatola, incurante dell’equilibrio ormai rotto, delle urla di questa.

Dolore, urla e sangue.
Non c’era più spazio per la ragazza dagli occhi di tenebra nella scatola, l’Idea, quella a cui ella stessa aveva incautamente dato vita, sembrava ormai autonoma, e crescendo pressava con ferocia, ferendola.
Ed ella si chiedeva, fra le lacrime, quando avesse dato vita a una tale atrocità, e perché mai non avesse semplicemente accolto la sua esistenza così com’era, dolorosa ma sempre meno di adesso.
Più spoglia e vuota, ma sicuramente più semplice. Perché non aveva voluto accogliere il giusto, il normale… Perché aveva dovuto pensare?

E mentre dentro la scatola combatteva una lotta contro l’Idea, contro se stessa e contro il dolore di una fine ineluttabile, fuori, fra i filari di scatole bianche, una di queste si macchiava di rosso. Rivoli di sangue sgorgavano, macchiando il candore dell’ordine prestabilito e piccole crepe sembravano apparire, lungo gli angoli, lasciando fuoriuscire lamenti, e grida di dolore.

La ragazza stava per scomparire, sotto il peso delle sue stesse idee. Stava morendo, e ne era felice, il dolore avrebbe cessato di devastarla a ogni respiro. E sarebbe scesa la pace.

Nel frattempo le altre scatole se ne stavano ferme, immobili come sempre, e attendevano caute. Tutto è sangue nelle scatole, ma nulla è rosso, fuori di queste. Nulla è diverso, nulla di giusto, almeno. Salvate, salvateci dalla scatola rossa, osano pensare queste, aiutateci a sfuggire dai lamenti dalla scatola piangente.

E mentre queste prendevano coscienza dell’imminente fine del vecchio ordine, qualcosa, nella scatola rossa accadde. Un ultimo singulto, un sospiro spezzato e la ragazza capitolò, mentre le ultime ossa del suo corpo si sottomisero alla pressione dell’Idea che, cibandosi di lei, aveva continuato a crescere spietata.

Non c’era più spazio nella scatola, il sangue ormai imbrattava l’esterno e il rosso tingeva il candido dei marmi lucenti su cui erano disposte le scatole dell’intero mondo. Il mondo non era più bianco, non era più in ordine e sicuramente non era più pulito. E la ragazza dagli occhi rossi era scivolata fuori, ormai senza vita, dalle crepe di quella cella che da sempre l’aveva racchiusa.
È morta, si è finalmente arresa all’idea di essere diversa, di avere una voce, e per questa Idea ha cessato di esistere nella scatola della mediocrità.

Era morta, eppure infine è viva, mentre il sangue ormai nero le impregnava i capelli e il corpo privo di consistenza.
E l’anima, da troppo tempo racchiusa nella scatola, si librava sopra il corpo, osservandosi seria per poi alzare lo sguardo al cielo notturno impreziosito da mille e mille stelle.
Gli occhi un tempo rossi si tinsero del colore del cielo, e il manto della notte l’avvolse rendendola finalmente libera.

Salvate, salvate la ragazza dagli occhi di tenebra.
Salvatela, sembravano implorare i mormorii di chi aveva tentato e fallito nel tempo.
Corretele incontro, sguainando la luce in grado di diradare le tenebre, salvatela dalle tenebre. Salvatela da se stessa.
Salvate, salvate la ragazza dagli occhi di tenebra e la morte nel cuore.

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